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Dove nasce la luce

Aggiornamento: 9 nov 2022

Appunti per una storia intima della Festa

“Come l’aria, come l’acqua” recitava così un lungo lenzuolo sventolato a mo’ di bandiera dalle finestre del più antico teatro di Roma, il Valle, appena occupato. E’ giugno 2011 e artisti, cittadini, studenti e precari penetrano in un tempio della cultura destinato all’abbandono per donargli nuova vita e nuove esperienze.

Siamo all’indomani della vittoria referendaria che scongiura la privatizzazione delle risorse idriche nazionali e vengono alla ribalta i beni comuni, quei beni inalienabili ed essenziali allo sviluppo fisico e psichico di una comunità e delle persone che la compongono. I beni comuni si intrecciano ai bisogni e ai desideri, per aprire una nuova stagione, una nuova fase della nostra presenza in questo ‘tempo malconcio’. E’ dentro al Teatro Valle Occupato, nel caos di quei primi intensi mesi che Alessandro Fabrizi ed io ci ritroviamo dopo anni. Alessandro è venuto ad offrire dei corsi di metodo Linklater agli attori occupanti e alla cittadinanza; io prendo parte attiva al collettivo artistico/politico che presidia il teatro. Torniamo a respirare la stessa aria, sotto lo stesso tetto.

Le riflessioni di quella comunità sempre più numerosa e assortita ci contagiano e si innescano sui nostri percorsi. Sono anni che Alessandro svolge in estate dei soggiorni a Stromboli per artisti che vogliano approfondire attraverso la voce una ricerca artistica e creativa; c’è anche un film a sua firma che racconta questa esperienza (Giving Voice); dal canto mio è da tempo che ho innescato un percorso parallelo a quello d’attore, per dedicarmi ad una ricerca sull’essenza della forma teatrale a partire dal corpo dell’attore, degli elementi che compongono la scena e la drammaturgia.

La luce è diventata per me un’autentica ossessione. La luce permette la visione. Cos’è un corpo davanti ai nostri occhi? Da dove appare? Dove si dilegua? Cosa trasforma? Cosa diventa? Cosa resta di lui? La visione è quel momento sospeso tra apparire e sparire; nel gioco di pienezza, ombra e buio c’è un campo d’indagine ancora - dopotutto - inesplorato e inesplicabile.




Anch’io frequento le Eolie (Lipari) e incontro Alessandro l’estate successiva mentre torniamo in nave dall’arcipelago. Vogliamo provare a fare qualcosa insieme, magari l’anno successivo. Ale sta lavorando con la sua associazione ad una Festa teatrale a Stromboli.

Mi piace da subito la parola Festa. Ha un sapore antico; mi richiama in mente le dionisiache ad Atene o la Rosenfest della Pentesilea di Kleist; la tregua dalla guerra, dalle lotte, dalla dura vita quotidiana per ritrovarsi insieme spogli d’armi e denudati di corazze per scambiarsi doni, immergendosi in un tempo e in un luogo per l’incanto, per la meraviglia, per la conoscenza e l’eros, per generare o accogliere l’inatteso. Mi dice che il 2013 sarà l’edizione zero, per vedere se la barca regge il mare, se sopravvive alle onde. Ci sarò, glielo prometto.

E così è. Mi occupo da subito della parte tecnica. Sviluppo pratiche ed idee. Con Ale ci siamo confrontati sulla necessità di una luce naturale e da lì parto. Come amplificarla, riverberarla, rifrangerla. Provenga, essa, dal sole o da una fiamma.




Lavoro sugli specchi, sulle superfici riflettenti. Il Teatro Valle Occupato dove vivo e lavoro è una bella officina dove sperimentare.

Ma quando arrivo a Stromboli in quel giugno 2013 ogni idea si azzera. La luce solare è eccessiva, troppa; la notte è profonda, assordante; i corpi, estremamente fugaci dentro gli spazi infiniti e non offrono quasi mai superfici circoscritte e costanti da illuminare. Gli artisti sono storditi, frastornati, inghiottiti dalle tenebre. Il vulcano e la sua terra chiedono altro per farci restare lì. Bisogna ripartire da zero; del resto siamo in un’edizione zero. La luce elettrica deturpa, le lampade a petrolio che accendiamo appestano l’aria e sono fioche e fragili, ogni forma di distanza allontana contatti e relazioni.

Bisogna tornare ad ascoltare gli spazi, i tempi, ad ascoltarsi nei rapporti, nei bisogni per ritrovare qualche strumento amico. Se il sole ustiona, la fiamma conforta e la fa curiosamente da padrona nella notte, ma le isole Eolie sono una eterna contraddizione; spesso il signore del vento soffia impetuoso nella sua casa e la nostra confortante amica non resiste.

Non resta che tornare, sconfitti, ad osservare. Le barche dei pescatori ogni sera si allontanano a mettere palamiti, nasse ed esche per totani. Sono piccole stelle nel mare nero. Oggi batterie a piombo assicurano la loro luce. Ma come facevano in passato? La luna, certo. Ma quando era piena non era propizia alla pesca. Scopro le lampare. Le lampare erano alimentate prima ad acetilene - un gas prodotto da idrocarburi sotto pressione quindi altamente esplosivo - poi vista la loro pericolosità, con le bombole a gas. Dove sono finite quelle lampade, oggi? Sparite o riadattate a corrente continua.

Faccio lunghe ricerche ovunque. C’è una ditta di porto Marghera che ne ha ancora; di quelle a gas butano fabbricate negli anni ’60. Ne ordino un paio. La loro luce azzurra sprigionata con un sibilo sottile e sinistro ci affascina. Sono una presenza confortante. Si mescola e confonde perfettamente alle padelle di cera che stiamo cominciando ad usare e alle grosse torce anti-vento, quelle delle processioni religiose, che una ditta di Catania fabbrica ancora artigianalmente con resine e canapa in onore del martirio di Sant’Agata.

Abbiamo i primi mezzi. Sono bestie indomabili, ma il loro effetto è stupefacente. C’è l’ora del crepuscolo che Alessandro ed io scegliamo per ambientare gli eventi. Ma si finisce sempre nel buio e quelle prime fiamme che prendono corpo ci ricordano cos’è l’uomo su questo pianeta, i suoi primi fuochi, la sua piccola luce per vincere la paura, la solitudine, il panico metafisico.

Da qui in poi andremo avanti a cercare altri bagliori e altre scintille in questa notte tremenda e magnifica che ci avvolge. Senza dogmi, senza pregiudizi, senza certezze, ma attenti a non compromettere più la visione del mistero che ci circonda.




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